Messi insieme, uno vicino all’altro, i numeri sono impietosi. Troppi zeri, troppe sfide ancora da vincere con un tempo tiranno e soprattutto – è proprio il caso di dirlo – arido. E dunque: ogni anno nel mondo 151,469 miliardi di litri d’acqua vengono sprecati insieme al cibo. Questa, stando al report italiano 2024 dell’Osservatorio internazionale Waste Watcher, è la stima dell’impronta idrica dello spreco alimentare domestico. Si fa presto a chiamarlo oro blu, il volume dello spreco è inquietante. Siamo davanti più che altro a una crisi idrica globale. Anche qui, qualche dato da tenere a mente: 663 milioni di persone non hanno accesso all’acqua potabile e circa 2,4 miliardi vivono senza servizi igienico-sanitari adeguati.
Alla luce di questa fotografia, vien da sé che lo spreco sia diventata una parola tabù, e virtuose siano invece diventate tutte le buone pratiche da perpetrare in uno scenario in cui le tecnologie moderne e le nuove infrastrutture possono e devono essere un’opportunità nella gestione delle reti di acqua e rifiuti. I dati dell’Osservatorio internazionale Waste Watcher risuonano come un grido d’allarme. E l’Italia si trova dentro questo solco. Continuiamo con i numeri che, come noto, hanno la testa dura. Stando ai dati raccolti ed elaborati da Legambiente, l’Italia ogni anno consuma 26 miliardi di metri cubi di acqua. Attenzione però perché il 22% dell’acqua prelevata viene disperso, rendendo il nostro Paese una delle nazioni con il più alto tasso di spreco di acqua, e quindi con una delle più alte impronte idriche d’Europa.
La crisi idrica, al sud come al nord, è un argomento finito al centro dell’agenda di governo con l’istituzione di un commissario per l’emergenza, emergenza che deve fare i conti anche con il cambiamento climatico. Anche a Bruxelles, la Commissione europea ha concepito da tempo iniziative legislative e direttive varie per cercare di tamponare e non sprecare, sensibilizzare e conservare. Purtroppo questo argomento paga ancora un grande scotto, la mancanza di consapevolezza da parte di un’alta percentuale di cittadini. Spiega la Commissione europea: “La carenza idrica colpisce ogni anno il 30% degli europei e il 20% del territorio. Di fatto, il 70% della popolazione europea ha espresso preoccupazione per l’inquinamento e la carenza idrica, ma quasi la metà non si sente ben informata sui problemi legati all’acqua nel proprio paese”.
Si tratta dunque di un SOS universale. Il settore idrico ha la possibilità di vivere un momento favorevole per il suo sviluppo, a patto che vengano colte le opportunità offerte dai finanziamenti europei e dalle moderne tecnologie digitali, per affrontare le nuove sfide normative e strutturali che riguardano l’acqua, tra le più rilevanti risorse globali. Abbracciando quello che l’ingegnere ambientale americano David L. Sedlak chiama modello Water 4.0, con riferimento a una profonda trasformazione digitale nell’ambito del servizio idrico integrato. L’adozione di tecnologie digitali in questo settore risulta essere ancora a uno stadio iniziale. Molto potenziale e conseguenti benefici restano a oggi inesplorati nell’erogazione di questo servizio di pubblica utilità. Ecco perché è urgente e necessario agire concretamente sul fronte normativo, regolatorio e finanziario. La tecnologia digitale diventa quindi, ancora una volta, il mezzo abilitatore di un modello illuminato, un eccezionale strumento per ottimizzare la gestione dei processi, efficientare l’uso della risorsa idrica, e migliorare l’attenzione e la consapevolezza dal lato dell’utenza, per uno switch culturale dal quale tutti abbiamo da guadagnare.
Tra le prossime sfide future, ve ne sono alcune imprescindibili che riguardano la garanzia della qualità della risorsa idrica per i cittadini, con il soddisfacimento della crescente domanda di acqua; il frenare l’avanzamento del degrado delle infrastrutture e delle reti, impegnandosi in una migliore manutenzione del patrimonio idrico, a partire da un più efficace tracciamento delle perdite e delle cause fonte degli sprechi. Occorre dunque efficientare i processi e decentralizzare i sistemi idrici con lo scopo ultimo di erogare un solido e democratico servizio di pubblica utilità, con tariffe sostenibili per tutti i cittadini, e di ridurre, peraltro, l’impatto sull’ambiente. Intraprendere queste sfide è possibile solo adottando una pianificazione e una visione di insieme lungimirante attraverso l’applicazione delle moderne tecnologie digitali. Intelligenza artificiale, big data, cloud, internet of things, cybersecurity si rivelano dunque strumenti necessari per la trasformazione digitale dei sistemi idrici integrati lungo tutta la catena del valore.
Tornando all’Italia, bisogna fare i conti con una fotografia complessa. Tre scenari di contesto che riguardano il nostro paese. Il primo: l’invecchiamento delle infrastrutture. Il 22% della rete idrica ha più di 50 anni e il 36% ne ha più di 31. Il secondo: una forte dispersione della risorsa. Si parla del 42%, un dato allarmante se confrontato con l’8% della Germania e il 20% della Francia. E ancora: l’inefficienza organizzativa e finanziaria. Su oltre 2.500 imprese, l’83% è direttamente gestito da enti locali, determinando una contrazione della capacità di investimento. Si tratta di passare dunque dall’emergenza all’efficienza idrica.
Le strategie volte a una gestione dell’acqua più smart vanno a braccetto con quelle necessarie per la gestione dei rifiuti, altro tema universale che affanna coscienze e pungola lo sviluppo tecnologico. Anche qui, uno sguardo d’insieme. L’ultimo report del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente stima un ammontare di due terzi di rifiuti in più entro il 2050. Il volume di quest’ultimi, nel 2023, è stato pari a 2,3 miliardi di tonnellate. Un’emergenza che può e deve trasformarsi in occasione, anche se finora è stato l’ambiente a rimetterci in misura maggiore. Stando a quanto riportato nella stessa analisi dell’Onu, le discariche di tutto il mondo sono responsabili del 20% delle emissioni del più potente gas serra, il metano.
Un altro dato inquietante: attualmente, tra 400.000 e un milione di persone muoiono ogni anno per malattie collegate a una gestione inappropriata dei rifiuti. Si capisce come l’argomento rischi di produrre un circolo vizioso: sanitario, economico e ambientale. Soprattutto nel sud del mondo, dove i paesi sottosviluppati non hanno i mezzi indispensabili per fronteggiare una simile emergenza. Ma anche in Italia la questione desta enorme preoccupazione. Sono anni che le amministrazioni dibattono sul cosa fare dei rifiuti. E si dividono, molto spesso, dando talvolta spazio anche ad approcci ideologici e poco fattuali. In mezzo: la transizione ecologica, la sfida delle sfide. Ma come e a quale prezzo? Eppure, le imprese e buona parte dei cittadini oggi sono convinti che questa nuova scommessa può produrre innumerevoli vantaggi.
Nel 2022, le 115 principali realtà attive nel settore del waste management italiano hanno generato un valore della produzione di oltre 11 miliardi di euro, che si sono tradotti in 27 miliardi di euro di valore condiviso per il sistema Paese. Segno che il comparto resta frammentato, ma anche che il processo di consolidamento e industrializzazione degli operatori sembra aver cambiato passo. Lo riporta Althesys nell’ultimo WAS report del 2023 che, come ogni anno, fa luce sulle tendenze strategiche in atto nel mercato nazionale della gestione rifiuti. Un settore capace oggi di generare benefici economici molto interessanti anche per le singole aziende.
Acqua e rifiuti rappresentano dunque opportunità da non sprecare sfruttando tecnologie e investimenti studiati ad hoc, in un quadro normativo in continua evoluzione che a volte però fatica ancora a sostenere le sfide della contemporaneità. Si chiama bioeconomia. Un tema presente sulla carta anche sul tavolo dell’attuale governo. Al momento questo comparto raggiunge nel suo insieme circa 250 miliardi di euro di fatturato all’anno e 1,7 milioni di posti di lavoro. Ma, come detto, il suo potenziale non è ancora del tutto esplorato. Per ora, l’obiettivo al 2030 dell’Italia prevede di conseguire un incremento del 20% delle attività economiche e dei posti di lavoro afferenti alla bioeconomia italiana. Come? Attraverso due grandi direttrici.
La prima: migliorare la produzione sostenibile e la qualità dei prodotti in entrambi i settori, sfruttando in modo più efficiente le interconnessioni fra gli stessi, con una valorizzazione puntuale della biodiversità terrestre e marina, dei servizi ecosistemici e della circolarità. Occorre dunque creare nuove catene del valore, più lunghe e radicate sul territorio, che possano consentire di rigenerare aree abbandonate, terre marginali e siti industriali. La seconda leva, come si legge nei dossier elaborati da Palazzo Chigi, passa invece dalla formazione delle coscienze, dalla consapevolezza, e si traduce nella creazione di maggiori investimenti in ricerca e innovazione, spin off/start-up, istruzione, formazione e comunicazione; nel miglioramento del coordinamento tra soggetti interessati e politiche a livello regionale, nazionale e comunitario; il tutto con un coinvolgimento del pubblico via via crescente e azioni mirate per lo sviluppo del mercato.
Mai come in questo momento la gestione delle risorse acqua e rifiuti può diventare uno slancio per l’economia, una molla per migliorare i servizi per il cittadino e una carezza per l’ambiente che, come noto, non se la passa benissimo.