Affermatisi per la prima volta negli anni Cinquanta, i distretti industriali sono aree territoriali, geograficamente delimitate, in cui si concentra un gran numero di piccole imprese caratterizzate da una forte specializzazione produttiva. Il fenomeno ha cominciato a essere una realtà caratterizzante l’economia italiana negli anni Settanta, di fronte alla crisi delle grandi imprese e alla necessità di una maggiore flessibilità produttiva. In questo contesto, le piccole e medie imprese, spesso di origine artigiana e radicate in specifici territori, hanno trovato nel distretto un ambiente favorevole per lo sviluppo e la specializzazione. Dal punto di vista normativo, la legge 317 del 1991 ha riconosciuto giuridicamente i distretti industriali e, in seguito, la 140 del 1999 ha semplificato i criteri di individuazione dei distretti. L’Italia oggi conta oltre 140 distretti industriali distribuiti su gran parte del territorio nazionale, che rappresentano un elemento distintivo del sistema produttivo italiano e sono responsabili di quasi un terzo dell’export manifatturiero nazionale.
Rilevanza economica e sociale
Nella nostra epoca interconnessa, digitale e automatizzata, i distretti produttivi contano ancora molto, anzi, in molti casi hanno conosciuto un rinnovato valore. La produzione radicata nei territori non è solo un fatto economico, ma anche culturale, sociale e identitario. I distretti sono luoghi ricchi di memorie, sapere, legami, persone, simboli e tradizioni. Questo modello di sviluppo che oggi potrebbe apparire in controtendenza è invece uno dei punti di forza dell’economia italiana: secondo Unioncamere, il 25–30% del valore aggiunto manifatturiero nazionale proviene proprio da queste aree. Una ricchezza che si crea ancora con l’artigianato, le idee, la creatività, e che è strettamente connessa al territorio. Una sorta di modello di sviluppo alternativo e fuori dal tempo, in grado non solo di generare profitti ma anche di creare valore condiviso, qualità e significato, in un’epoca in cui gran parte dell’economia vive su un piano immateriale, finanziario o digitale.
Radicati localmente ma competitivi a livello globale, i distretti producono beni di alta qualità destinati anche a mercati internazionali, ma mantengono una governance di prossimità, basata su relazioni personali e meccanismi fiduciari. Per questo restano oggi presidi di manifattura avanzata e di resilienza locale, parte di un tessuto sociale e di una comunità, in grado in molti casi di reagire alle crisi globali con una grande capacità di adattamento. Un contesto che favorisce un capitale sociale diffuso fatto di fiducia, collaborazione e senso di appartenenza, solida alternativa ai modelli di sviluppo impersonali. Inoltre, il tempo ha dimostrato che i distretti territoriali che riescono a restare attrattivi per le nuove generazioni tendono a subire di meno i diffusi fenomeni della fuga dei cervelli e della disoccupazione giovanile. Fino ad arrivare in alcuni casi a funzionare come scuole di imprenditorialità dal basso, anche grazie alla capacità di essere luoghi di innovazione che abbracciano le profonde trasformazioni in chiave green e digitale, con un approccio umano e graduale che valorizza il saper fare e la conoscenza diffusa, dove la sostenibilità è molto più spesso concreta che dichiarata, grazie a un tessuto ricco di piccole e medie imprese, di artigiani evoluti, e di famiglie che innovano per generazioni.
Dove il Made in Italy prende forma
La forza dei distretti industriali italiani è talvolta messa sotto pressione da trasformazioni profonde e sfide globali, in alcuni casi inedite come quella della pandemia da Covid. Per passare in rassegna alcuni tra i più rilevanti distretti produttivi italiani bisogna menzionare quello della ceramica a Sassuolo, con oltre 12.000 addetti e il 90% del comparto italiano; quello tessile a Prato con 7.000 imprese attive e una forte spinta sull’economia circolare; quello biomedicale a Mirandola, che è il terzo polo europeo del settore; il distretto elettrodomestico e meccatronico a Treviso e Pordenone, che conta ben 25.000 occupati; quello della concia ad Arzignano che ha all’attivo il 55% della produzione italiana di pelle; e quello dell’automotive a Modena, tra i più prestigiosi al mondo, cuore della Motor Valley dell’Emilia-Romagna, noto per la produzione di auto sportive e di lusso. Ma come stanno cambiando questi ecosistemi produttivi, capaci sì di generare innovazione diffusa ma anche molto esposti alle turbolenze esterne? E quale ruolo avranno nel nuovo scenario globale, segnato da crisi energetiche, intelligenza artificiale e sostenibilità?
Il purpose
La missione dei distretti industriali italiani va ben oltre la semplice funzione economica. Questi ecosistemi produttivi hanno un ruolo strutturale e culturale che li rende unici, ruolo che negli ultimi anni si è evoluto per rispondere a nuove esigenze globali e locali. Quindi, se da una parte il purpose dei distretti è quello di generare valore economico diffuso e inclusivo, dall’altra essi hanno anche lo scopo di promuovere la coesione sociale e la cultura del lavoro. I distretti infatti non creano solo profitti fini a sé stessi, ma distribuiscono anche ricchezza sul territorio, favorendo un’economia più equilibrata e meno polarizzata. Una risposta alternativa alla concentrazione industriale e finanziaria, che contribuisce a sostenere l’occupazione locale, anche in aree non metropolitane. I distretti produttivi vanno dunque concepiti anche come ambienti sociali che favoriscono reti di collaborazione, apprendimento intergenerazionale e mobilità sociale, con il risultato di comunità attive e connesse.
Altra missione fondamentale dei distretti è quella di essere modelli sostenibili di sviluppo territoriale e dunque di offrire un’alternativa umana e locale alla globalizzazione impersonale. Grazie alla loro struttura a rete, alla filiera corta e allo stretto legame con il territorio, i distretti industriali sono laboratori ideali per praticare la sostenibilità, sia dal punto di vista ambientale, con una produzione a basso impatto, sia da quello economico, con un modello resiliente in contesti di crisi, che dal punto di vista sociale, poiché sono in grado di diffondere i valori dell’inclusione e della partecipazione. Questi ecosistemi si distinguono dunque per la grande capacità di custodire il sapere manifatturiero italiano, evolvendo attraverso processi che abbraccino l’innovazione tecnologica e organizzativa crescente. In essi vi si producono beni unici, ricchi di identità, storia e qualità, e questo dimostra che è possibile competere, anche a livello globale, senza delocalizzare né disumanizzare il lavoro.
Quale piano d’azione per i distretti di oggi?
Per centrare questi obiettivi è necessaria – oggi più che mai – una strategia chiara, multilivello e coordinata, con la quale sia possibile affrontare le numerose sfide che il contesto globale propone, così da resistere e conservare competitività nel futuro. Anzitutto, nonostante l’alta specializzazione produttiva, migliaia di PMI sono ancora lontane dagli standard della digitalizzazione avanzata. La doppia transizione transizione digitale ed ecologica, spinta dal contesto post-pandemico e da obiettivi europei stringenti, come il Green Deal e il PNRR, rappresentano per molte realtà una condizione di sopravvivenza. Per aumentare efficienza e competitività diventa dunque necessario investire in intelligenza artificiale, automazione, piattaforme collaborative e tracciabilità di filiera. Allo stesso tempo, in un contesto economico e sociale sempre più attento all’impronta ambientale dei prodotti, è importante distinguersi per l’adozione di pratiche green, come l’uso di materiali rigenerati, la riduzione dei consumi energetici e la gestione circolare degli scarti. E, come spesso accade, l’adozione di buone pratiche da parte di pochi attori può avere un effetto moltiplicatore su tutta la filiera. Per mettere a segno questa doppia transizione occorre un supporto mirato che passi in primis da incentivi pubblici, come finanziamenti a fondo perduto per una transizione 4.0 (per esempio, fondi UE, PNRR, bandi regionali), ma anche da un’assistenza tecnica e digitale diffusa per l’adozione di tecnologie AI, IoT e blockchain di filiera, oltre che da una nuova cultura d’impresa orientata all’innovazione sostenibile, con agevolazioni per chi investe in efficienza energetica e materiali riciclati.
Con queste premesse, anche il meccanismo dell’internazionalizzazione, a cui da sempre tendono i distretti italiani, riesce a coniugare il rispetto dei criteri di sostenibilità, esportando non solo quantità ma anche i valori che stanno intorno al prodotto. La proiezione verso la dimensione globale è cruciale per sopravvivere e crescere, ma deve essere coerente con il saper fare e l’identità che rendono unico il Made in Italy. La sfida è dunque quella di internazionalizzare senza snaturare, mirando a conservare a livello globale quella reputazione che ha fatto del brand Italia una garanzia di successo. Per raggiungere questo risultato oggi alle PMI occorrono piattaforme digitali condivise per l’export e l’e-commerce internazionale, strumenti per il branding territoriale, supporto nella certificazione ambientale e sociale, e inserimento nelle fiere internazionali. Oltre al prezzo e al valore economico intrinseco, i prodotti devono sapere raccontare il proprio valore, attraverso qualità, tracciabilità, sostenibilità, design, tradizione e innovazione insieme. Allo scopo potranno essere utili anche accordi tra distretti produttivi e camere di commercio estere, come anche la partecipazione a fiere internazionali, oltre che le certificazione green che documentano la qualità sostenibile.
In questo contesto può essere utile per le imprese aggregarsi e cooperare tra loro per trasformarsi in una presenza più forte, anche al fine di evitare una eccessiva frammentazione. Esistono micro realtà che, seppur eccellenti, rischiano di rimanere isolate se non inserite in un contesto più organizzato. Per questo fare sistema in alcuni casi può essere la chiave per la sopravvivenza e la crescita. Per cooperazione tra PMI si intende per esempio l’aggregazione in reti d’impresa, consorzi, cooperative di filiera, distretti evoluti, fabbriche diffuse, modelli innovativi di imprese autonome che lavorano però in modo condiviso sulle varie fasi della value chain: tutte forme di collaborazione che consentono di ottimizzare risorse e investimenti, accedere con una dimensione più robusta ai mercati e ai finanziamenti, oltre ad affrontare insieme le transizioni tecnologiche ed ecologiche, anche dal punto di vista del sapere diffuso. Simili modelli organizzativi richiedono chiaramente una regia da affidare a un unico attore. Attore che può comunque essere frutto di una sinergia tra enti locali, associazioni imprenditoriali e poli universitari e di ricerca che spingano le PMI, anche dal punto di vista culturale, a uscire dalla mera logica della competizione per abbracciare quella della cooperazione.
Altro tema decisivo per i distretti produttivi di oggi è la rinascita del lavoro qualificato. Paradossalmente, all’aumentare della disoccupazione giovanile, crescono anche posti vacanti in molte imprese a causa della mancanza di figure tecniche specializzate. Occorre dunque un’azione a monte, tesa a riformare e rafforzare la formazione tecnico-professionale, così da contrastare la carenza di manodopera specializzata e il mismatch tra domanda e offerta. Il profondo gap tra scuola e impresa è in effetti una delle criticità attualmente più gravi del nostro sistema produttivo e parte del problema sono gli attuali istituti tecnici e tecnologici superiori che, concepiti proprio per colmare questa frattura, restano al momento sotto-finanziati, oltre che alternative poco conosciute. Ecco perché diventa necessario investire in un ecosistema formativo territoriale integrato, dove le imprese siano co-protagoniste di un modello che annoveri co-progettazione dei curricula, apprendistato duale, mentoring aziendale, stage retribuiti, scuole di mestiere. A questo scopo può essere in parte utile anche un cambiamento culturale basato sulla comprensione del fatto che le professioni tecniche meritano di essere considerate prestigiose al pari di quelle intellettuali. Obiettivi simili necessitano di un’azione congiunta da parte di ministero dell’Istruzione, Regioni, istituti tecnici, centri di formazione professionale, PMI e associazioni distrettuali, fondazioni bancarie ed enti locali. Il tutto secondo un approccio place-based, cioè tarato sulle specificità e le potenzialità dei singoli territori.
La nuova era post-pandemica: tempeste perfette e nuove rotte
Accadimenti non prevedibili e trasformazioni profonde hanno messo a dura prova i distretti industriali. A cominciare dalla pandemia da Covid che ha spezzato le catene del valore globali, mostrando i limiti della produzione delocalizzata e spingendo per la riorganizzazione delle filiere. La guerra in Ucraina, inoltre, ha messo in evidenza i grossi limiti della dipendenza energetica e ha mostrato tutta la fragilità delle forniture internazionali con il risultato di aumenti del prezzo dell’energia talvolta insostenibili. Allo stesso tempo, la rivoluzione digitale e la transizione ecologica stanno trasformando profondamente ogni contesto economico e sociale. Le PMI dei distretti italiani, molto spesso legate ancora a modelli produttivi tradizionali, non possono non tenere conto delle recenti trasformazioni e abbracciare tutti gli elementi innovativi che le caratterizzano, dall’automazione all’intelligenza artificiale, dalla blockchain all’economia circolare. Tra le trasformazioni in atto va inoltre considerata la variabile demografica: l’Italia invecchia a ritmi crescenti. Questo elemento, unitamente al fatto che le scuole tecniche faticano a formare nuovi artigiani e che molti giovani scelgono di emigrare in cerca di opportunità migliori rispetto a quelle che il nostro paese ha da offrire loro, sta inasprendo il problema della carenza di manodopera specializzata mentre si assiste a un crescente invecchiamento della forza lavoro attualmente impiegata.
Rilancio e sfide socioeconomiche per il futuro
Tra le principali sfide socioeconomiche per il futuro prossimo c’è dunque quella di individuare delle soluzioni per fronteggiare il problema della carenza di manodopera specializzata, attraendo e trattenendo i giovani nei territori. Unioncamere stima oltre 500.000 tecnici e operai specializzati mancanti nel solo 2024. Questo, anche alla luce del fatto che, secondo gli ultimi dati Istat, la popolazione attiva scenderà ulteriormente del 20% entro il 2050. Allo stesso tempo, potrà rivelarsi utile investire in iniziative territoriali per attrarre giovani che innovino realtà tradizionali, senza snaturarne l’identità. A questo scopo, appare imprescindibile costruire reti tra imprese, università e centri di ricerca. Va infatti considerato anche il tema del passaggio generazionale e il ruolo dei giovani, capaci di affrancarsi da un sistema manageriale puramente padronale. I giovani hanno infatti il potenziale di incarnare veri e propri agenti di cambiamento, di rappresentare, per gli ecosistemi tradizionali e maturi, una grande spinta rigenerativa capace di coniugare saper fare artigianale e tecnologie all’avanguardia. Anche le start up immerse in un dato distretto produttivo o sorte in sua prossimità svolgono un’importante funzione di svecchiamento, con ricadute positive sull’intero ecosistema imprenditoriale.
Catalizzando la transizione digitale, sono per esempio in grado di applicare l’intelligenza artificiale alla produzione al design, l’Internet of Things più all’avanguardia per il controllo di qualità e l’efficienza energetica, la blockchain per la tracciabilità dei prodotti, la realtà aumentata per la formazione degli operatori, le piattaforme digitali per la gestione collaborativa delle filiere. Inoltre, realtà formate da giovani generazioni hanno per ragioni di approccio culturale una sensibilità più spiccata e dunque una maggiore attenzione verso valori come la sostenibilità, l’etica e l’impatto sociale. Tutto questo contamina positivamente il contesto locale, a volte troppo ancorato a una visione tradizionale e chiusa dell’impresa, poco tendente ad abbracciare l’innovazione. Per queste ragioni, sempre più distretti produttivi stanno sperimentando modelli di open innovation in cui PMI tradizionali collaborano con start-up e giovani talenti. Si tratta di un incontro tra mondi diversi ma che si può leggere come complementare: da una parte le imprese radicate sul territorio offrono esperienza, rete e capacità produttiva e dall’altra le start-up portano idee fresche, agilità e visione tecnologica. Tutto ciò può rivelarsi cruciale per affrontare le sfide della competitività, della sostenibilità e del ricambio generazionale.
Riconversione: chi innova, resiste (e cresce)
Molti distretti produttivi stanno reagendo con creatività e innovazione ai complicati scenari attuali, specie nei casi in cui sembravano destinati a un declino inevitabile. In molti casi, a guidare la trasformazione sono, come visto, start-up nate sul territorio e reti di imprese che collaborano con università e centri di ricerca. Per menzionare alcuni casi concreti ed emblematici, il distretto biomedicale di Mirandola, nel cuore dell’Emilia, ha saputo cavalcare l’onda post Covid puntando su robotica e stampa 3D e svolgendo così un ruolo chiave nella produzione di dispositivi medici. Ora, grazie al sostegno della Regione Emilia-Romagna e dell’Università di Modena, si stanno sperimentando biomateriali intelligenti e robotica chirurgica. Inoltre, nello stesso distretto, start-up fondate da ex studenti di Ingegneria biomedica hanno introdotto sensori miniaturizzati e materiali bio-compatibili che sono poi stati adottati da aziende storiche del territorio. Intanto, in Brianza, storica patria del mobile nota per il distretto del legno e dell’arredo, aziende di design stanno sperimentando soluzioni di intelligenza artificiale per la personalizzazione dei prodotti sulle aspettative dei clienti. Le imprese stanno dunque adottando sistemi di AI e software CAD/CAM per la produzione automatizzata. Una mossa che ha fatto registrare diversi punti percentuali in positivo di export nonostante il rallentamento generale del settore. Invece, Prato, noto distretto tessile che sembrava essere condannato al declino, ha riscoperto una vocazione green abbracciando modelli di economia circolare. Oggi, in questo storico distretto, il 15% almeno dei tessuti prodotti è realizzato con materiali riciclati e sistemi di tracciabilità digitale. Un vantaggio competitivo fino a qualche tempo fa inimmaginabile, che spinge centinaia di aziende sul territorio a partecipare a progetti di tracciabilità digitale della filiera.
Politiche e visione a supporto dei distretti del futuro
Per garantire continuità a queste eccellenze territoriali, occorre un’azione corale articolata su più livelli. A partire dalla formazione, serve un potenziamento degli istituti tecnici superiori con investimenti e campagne strategiche per renderli una scelta più attrattiva per i giovanissimi. Sotto il profilo della digitalizzazione servono consistenti investimenti in infrastrutture e connettività di alta qualità, dal momento che un gran numero di imprese distrettuali non è ancora pienamente digitalizzato. Le politiche pubbliche hanno un ruolo chiave nel sostenere l’evoluzione dei distretti produttivi italiani, e anche la cooperazione tra pubblico e privato, laddove esperita, si è rivelata sempre un modello vincente da replicare. Alle PMI serve un accesso agevolato al credito per valorizzare il capitale umano, integrare tecnologia e cultura locale, spingere alla transizione green adottando modelli di produzione rispettosi dei criteri di sostenibilità. Le politiche pubbliche devono quindi sostenere questa fase di grandi trasformazioni in atto. A partire da piani come il PNRR, sarà possibile elevare la condizione di tutte le PMI rimaste indietro, incentivando al contempo il ricambio generazionale. Le imprese, dal canto loro, dovranno continuare a impegnarsi a tendere verso l’innovazione e l’internazionalizzazione, senza mai perdere il legame con il territorio e la tradizione.
Tra le politiche pubbliche a supporto dei distretti del futuro vanno dunque valutati interventi industriali mirati, e non “a pioggia”, poiché i distretti hanno bisogno di azioni su misura, tarate sulle filiere, che tengano quindi conto delle specificità dei settori di produzione e dei territori. Va semplificato inoltre il ricorso a forme di finanziamento agevolato per l’adozione di tecnologie 4.0, e incoraggiato il sostegno a progetti di rete tra imprese, cooperative di filiera e aggregazioni funzionali. Sotto il profilo delle politiche formative, oltre al potenziamento degli ITS con solidi investimenti, all’apprendistato duale e all’introduzione di tutor aziendali per i più giovani, sarà utile prevedere anche percorsi di riqualificazione per lavoratori adulti, incoraggiati dalle stesse aziende che investono nel loro capitale umano.
Le politiche a supporto della transizione ecologica possono invece annoverare un credito d’imposta per investimenti in efficienza energetica, trattamento rifiuti e riduzione CO2, finanziamenti per l’eco-design di prodotto e lo smart packaging, e magari una corsia preferenziale per tutte quelle aziende che hanno richiesto certificazioni ambientali e che desiderano partecipare a bandi e gare vari ed eventuali. Infine, potrebbero rivelarsi preziose anche politiche territoriali e sociali, in grado di rendere più attrattivi per i giovani certi territori ripiegati su sé stessi. Per farlo, occorrono tra le altre politiche, anche piani urbani per la rigenerazione delle aree industriali e dei borghi produttivi, compresi servizi di mobilità, housing, coworking, per la cultura e il tempo libero. In sostanza, serve una strategia nazionale per i distretti del futuro, affinché vengano visti come motore di sviluppo sostenibile e territoriale, un modello di ecosistemi produttivi da rafforzare e replicare, in cui la sinergia tra pubblico e privato permette loro di resistere e prosperare.
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