Oltre la paura: l’intelligenza artificiale e il futuro integrato del lavoro

Quando Socrate raccontava ai suoi discepoli la storia di Prometeo, che rubò il fuoco agli dèi per donarlo all’umanità, lo faceva non per esaltare la tecnica, ma per ricordare che ogni conquista porta con sé timori profondi. Il fuoco scalda, ma brucia; illumina, ma acceca. Analogamente, oggi siamo di fronte a una nuova scintilla: l’intelligenza artificiale. Come accade da sempre, non temiamo la tecnologia in sé, ma ciò che essa potrebbe cambiare in noi, a partire dal nostro modo di vivere e lavorare 

I numeri parlano chiaro. Secondo le stime più recenti, l’IA potrebbe creare fino a 170 milioni di nuovi posti di lavoro entro il 2030, soprattutto in ambiti come big data, fintech e machine learning. Ma nello stesso periodo potrebbero scomparire circa 92 milioni di ruoli, in particolare quelli amministrativi. 

Nel frattempo, l’evoluzione non si ferma. OpenAI ha recentemente annunciato che la versione “01” di GPT – uno dei modelli di intelligenza artificiale generativa più avanzati –  è in grado di ragionare. Un’accelerazione che è anche una chiamata al cambiamento: non si tratta più di delegare attività ripetitive, ma di ridefinire il rapporto tra intelligenza umana e artificiale. Di costruire un futuro fatto non di sostituzioni, ma di collaborazioni. Di persone coscienti e consapevoli in grado di usare la tecnologia come un copilota, un alleato quotidiano per liberare tempo, potenziare il pensiero e aprirsi a nuove possibilità.  

Paure automatiche: i bias che ostacolano l’adozione dell’IA 

Errori di pensiero che portano a valutazioni distorte della realtà: in gergo tecnico i bias cognitivi, responsabili per gran parte di quel sentimento di paura e impotenza che sperimentiamo di fronte all’intelligenza artificiale e agli avanzamenti tecnologici in generale. 

Di fronte all’IA entrano infatti in gioco due precisi bias cognitivi: il FOBO (Fear of Becoming Obsolete), ossia la paura di diventare obsoleti; e il FOMO (Fear Of Missing Out), ossia paura di essere tagliati fuori. 

Il primo alimenta l’ansia che la macchina ci rimpiazzi, spingendo molti lavoratori a rifiutare ogni confronto con l’ai. Il secondo, al contrario, genera una corsa all’adozione indiscriminata, con il rischio di rincorrere strumenti senza comprenderne davvero il senso. Entrambe queste reazioni, opposte ma complementari, bloccano l’evoluzione sana dell’organizzazione. 

Superare, anzi, attraversare queste barriere è questione anche di contesto. Focalizzandoci nell’ambito lavorativo, se inseriti in un contesto favorevole – ossia inclusivo, formativo, aperto alla sperimentazione – il cambiamento non appare più come una minaccia, bensì come un’evoluzione naturale. 

Per questo, le sfide legate all’introduzione dell’intelligenza artificiale su larga scala non riguardano solamente questioni tecnologiche, ma sono anche culturali, organizzative e formative 

Significa porsi l’obiettivo di mantenere alta l’occupabilità e accompagnare la formazione continua: il 59% delle posizioni attuali richiederà nuove competenze entro il 2030, e a questo dato si aggiunge il fatto che il 70% dei lavoratori italiani ritenga che lo sviluppo e il reskilling siano responsabilità dell’azienda. 

Ma significa anche gestire la readiness dei team: l’adozione dell’IA richiede approcci differenziati in base al livello di preparazione dei diversi segmenti aziendali. L’integrazione deve essere progressiva, ma soprattutto sensata. 

Dalla sostituzione all’integrazione, mantenendo la persona al centro 

Nel 1997 “Deep Blue” – un supercomputer progettato da IBM – sconfisse il campione del mondo di scacchi Garry Kasparov. Fu un evento storico, vissuto da molti come il simbolo del sorpasso della macchina sull’uomo. 

Eppure, proprio da quel momento nacque una nuova consapevolezza: il giocatore di scacchi più forte non era né l’umano da solo, né la macchina da sola, ma l’umano affiancato dalla macchina. Nacque il concetto di centauro negli scacchi, ovvero un team ibrido capace di superare le performance di entrambi i singoli.  

Uno principio che è anche alla base del nuovo paradigma: non più “work for us” ma “work with us”. 

L’industria 5.0 segue questo approccio: riconosce la necessità di integrare l’innovazione nei processi, mantenendo la persona al centro. Non si tratta più di produrre di più, ma di produrre meglio, in modo sostenibile e inclusivo. 

In che modo? Tramite le Fusion Skills, ossia le abilità di fusione in grado di “fondere” efficacemente il proprio apporto lavorativo con quello di una macchina per creare un risultato migliore, che nessuno dei due avrebbe potuto raggiungere da solo. 

Le competenze dell’integrazione per una re-umanizzazione del tempo 

Oltre i dati, i fatti. Uno su tutti: in molte organizzazioni, l’intelligenza artificiale resta ancora ai margini dei processi. La causa non è solo tecnica o economica: anche qui, è soprattutto culturale. Molte aziende temono infatti l’impatto dell’IA sul lavoro e per questo preferiscono rimandare, aspettare, osservare. 

Ma l’impatto ci sarà. E non sarà – come si tende a pensare – una sostituzione massiva di persone con algoritmi, quanto piuttosto una trasformazione profonda delle competenze richieste 

Non si tratterà cioè di fare meno, ma di fare diversamente. Ed è qui che entrano in gioco le fusion skills, competenze ibride che permettono di interagire con l’intelligenza artificiale non solo come strumento, ma come alleato. 

Parliamo della capacità di prendere decisioni basandosi sui suggerimenti algoritmici senza rinunciare all’intuizione (Judgement-integration); di immaginare nuove modalità di lavoro grazie all’automazione (Relentless reimagining); di apprendere continuamente in una relazione reciproca con la tecnologia (Reciprocal apprenticing). Ma anche – e soprattutto – di reimparare a usare il tempo in modo significativo (Rehumanising time). 

 Perché, se è vero che l’intelligenza artificiale può alleggerire l’agenda e automatizzare i compiti ripetitivi, la sfida non è solo tecnica, ma esistenziale: cosa facciamo con il tempo che recuperiamo? 

Durante la pandemia abbiamo accumulato un debito digitale: un sovraccarico di comunicazioni, riunioni, richieste, frenesia. L’IA, se ben integrata, può aiutarci a restituire ordine e respiro. Oggi chi utilizza strumenti di intelligenza artificiale generativa risparmia in media quattro ore a settimana, tempo che può essere reindirizzato verso attività di valore: formazione, mentoring, riflessione strategica, innovazione. La re-umanizzazione del lavoro (e del tempo) passa da qui: non dal fare di più, ma dal recuperare ciò che conta 

Change management: il cambiamento è umano 

Accogliere l’intelligenza artificiale nei contesti aziendali non è un gesto tecnico, ma un atto di leadership. Non si tratta solo di introdurre nuovi strumenti, ma di ripensare i processi, le relazioni, il modo stesso in cui si interpreta il lavoro. Serve visione, metodo e, soprattutto, coinvolgimento umano. 

Il cambiamento, infatti, non si impone: si accompagna. Serve costruire fiducia, spiegare il senso dell’innovazione, far comprendere non solo come cambierà il lavoro, ma soprattutto perché. La formazione continua è necessaria, ma non è sufficiente. È essenziale creare ambienti sicuri in cui sia possibile sperimentare, sbagliare, apprendere 

In questo, un modello strutturato come l’ADKAR può essere un buon riferimento: dalla consapevolezza (awareness) sul cambiamento al desiderio (desire) di farne parte, dalla costruzione tramite training e confronto di conoscenza (knowledge) allo sviluppo di abilità (ability) concrete e al rinforzo (reinforcement) attraverso esempi virtuosi e casi d’uso replicabili. 

Le tecnologie da sole non generano valore: lo fanno solo quando incontrano persone competenti, motivate, consapevoli del proprio ruolo e del proprio potenziale. Ed è qui che il change management si intreccia con la cultura aziendale: nella capacità di dare senso alla transizione, nel raccontare un futuro che non sostituisce, ma arricchisce.

 

BIP affronta il tema con gli esperti del settore

Alessia Canfarini, Head of Human Capital, BIP

Emma Bove, Associate Director, BIP

Laura De Sio, Associate Director, BIP

 

 

 

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